Hackers: tra radio, telefoni, computer e volantini

Ripercorriamo la storia del movimento hackers grazie all’opera di Federico Mazzini

Aspettavo da tempo di mettere le mani sull’ultima opera di Federico Mazzini, “Hackers: Storia e pratiche di una cultura”.

Avevo acquistato il libro immediatamente al momento della sua uscita, grazie anche alla raccomandazione fatta dalla somma Carola Frediani nella sua newsletter “Guerre di Rete“, ma solo durante l’estate sono riuscito a godermelo.

Fin da subito, e come già chiaro anche nelle diverse recensioni, l’opera parte dal caposaldo di “Hackers” di Stephen Levy, volendo però raccontare una storia meno polarizzata, meno romantica, e non necessariamente incentrata sul parallelo informatica – hacking.

In questa recensione ne ripercorriamo i tratti per noi primari, in via del tutto soggettiva, e senza spoiler per chi ancora si deve apprestare a leggerlo.

Hackers: non vestono di nero, non hanno il cappuccio

Mazzini racconta la genesi di un movimento e di una contro-cultura partendo proprio dall’ideologia della stessa. Essa nasce ben prima dell’avvento del computer, e nello specifico attecchisce nel mondo dei radioamatori hobbistici.

L’hacker ante-litteram ha radici letteralmente da romanzo (la storia del ragazzino che da solo ripara un treno a vapore o sistema una linea del telegrafo, in parte narrativa e in parte indottrinamento patriottico made in USA verso la cultura del DIY e del self-made man). Ma poi cresce, evolve, e inizia a frequentare le università.

Esatto. Non bui garage, cantine, sotterranei. Ma prestigiose università della Ivy League, l’MIT, Stanford. Università private, riservate a una popolazione di élite.

In tali luoghi viene coniato il termine hacking, senza naturalmente che esso coincida con il ruolo di cybercriminale che è diventato d’uso al giorno d’oggi.

Un viaggio nel tempo tra smanettoni, ribelli e tecnocrati

In “Hackers: Storia e pratiche di una cultura” , Mazzini esplora diverse declinazioni della filosofia hacker. Libertà, DIY, anti-establishment. A volte, meramente ego e voglia di dimostrare di essere i migliori. Altre volte, una missione politica ben specifica e determinata.

In tutto questo traspare un movimento fortemente USA-centrico, fortemente bianco e maschio etero, che vorrebbe farsi portavoce di un movimento di ribellione, purché portato avanti da persone aderenti a una specifica identità.

Infine si affronta il tema della hacker legacy, l’eredità della cultura hacker e la sua evoluzione.

Un libro godibile

“Hackers: Storia e pratiche di una cultura” è un’opera che si legge con grande facilità, scorrevole, piacevole e ben scritta. Un’opera completa e dal piglio saggistico, che ritengo vada letta come un compendio “made in Italy”, questo elemento non da poco, a una narrativa troppo spesso fatta di stereotipi e luoghi comuni.

L’autore

Federico Mazzini insegna Digital History e Storia dei media e della comunicazione all’Università di Padova. Si è occupato di storia culturale della Grande Guerra, dell’esperienza contadina del conflitto e di storia della comunicazione tecnoscientifica di massa nel primo Novecento, con particolare attenzione all’immaginario tecnologico sviluppato durante la prima guerra mondiale. Le sue ricerche più recenti riguardano la storia delle culture tecniche (radioamatori, phreaks e hacker) nel corso dell’intero Novecento (dalla biografia ufficiale dell’autore diffusa da Editori Laterza).

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